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Il risciò: L'unica utilitaria davvero ecosostenibile: fa mediamente 100 km con un kg di pasta e ci vai praticamente ovunque. E la tua? in risciò da Monaco di Baviera a Genova
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Diciassettesimo Giorno

Domenica 9 settembre 2007

Come andò che a Cormano assistetti al rito religioso ambrosiano, e che trasportai mia zia in gita nel centro di Milano.



Q uesta mattina di un'altra bella giornata di sole sono andato a piedi con la zia e lo zio alla messa domenicale alla chiesa di Cormano. Qui in Lombardia la funzione ha delle piccole differenze da quella diffusa ovunque, e viene chiamata rito ambrosiano. In esso per esempio si recita all'inizio il “Kyrie eleison”, e il “credo” si recita dopo lo scambio di pace.
Per pranzo, quando anche mio cugino si è risvegliato, possiamo finalmente mangiare i tortellini che mi ero portato dietro da Parma, con un po' di buon vino e le usuali specialità calabresi che su questa tavola, come sulla tavola dei miei genitori, non mancano mai.

Dopo mangiato abbiamo pensato di goderci il bel tempo facendo una gita in città, di visitare il Duomo, magari bere qualcosa là in piazza e tornare indietro. Lo zio non è potuto venire con noi, i cugini avevano programmi diversi, e quindi siamo andati io e mia zia. Abbiamo tirato fuori il risciò dal garage sotterraneo, e siamo partiti. Mia zia era curiosa di sedersi su questo mezzo di trasporto, e siccome era domenica e non le capita tutti i giorni di festa di fare una gita fuori paese, ha pensato di tenere addosso il vestito elegante della messa. In più ha pensato di portarsi dietro anche la macchina fotografica, e mentre guidavo verso il centro faceva foto a destra e a manca da dietro le mie spalle.
Uno dei vantaggi del risciò è che è l'unico modo per stare seduti e nel contempo spostarsi a passo d'uomo: così si vedono spesso cose del nostro ambiente che altrimenti andando con un mezzo più veloce, foss'anche una bicicletta a due ruote, rischiamo di perdere.
Logicamente su tre ruote non c'è una velocità minima necessaria da mantenere per non perdere l'equilibrio, quindi se non c'è fretta si può anche viaggiare molto lentamente.

Milano di domenica pomeriggio in risciò

Siamo passati a fianco dell'ospedale Niguarda, e da là abbiamo imboccato una lunga strada che conduce fino oltre la ferrovia lungo un grande cavalcavia, e che poi si collega con il corso Buenos Aires, una strada enorme e piena di traffico. Ogni tanto a lato della strada osservavamo le persone che camminavano, e le persone osservavano noi.
Ogni tanto si vedevano delle creature singolari, delle donne altissime, magre e ben vestite, che però se le guardavi in faccia ti accorgevi che dimostravano 15-16 anni. Milano è anche la città della moda, e delle modelle.
Nonostante che sia un giorno festivo c'è comunque un traffico spropositato. I negozi sono aperti e chi può va in auto a parcheggiare proprio di fronte al negozio o al locale che interessa. Corso Buenos Aires prosegue poi al di là di Porta Venezia lungo Corso Venezia, fino a San Babila. Questa è un'altra deliziosa chiesa lombarda di marmo e mattoni rossi.
Da là abbiamo imboccato via Montenapoleone, che è una via frequentata da gente elegante; noi ci sentivamo eleganti abbastanza da poterla percorrere.
Io ero vestito con una camicia e jeans lunghi di taglio moderno. Come qualcuno ha osservato, tuttavia il fatto che per guidare – bicicletta o risciò che sia – porti un pantalone arrotolato fin sotto il ginocchio (non è per moda, ma per non sporcare il pantalone con la catena ingrassata) è una caduta di stile inaccettabile. E nella capitale della moda è possibile che questo piccolo particolare abbia contribuito a rendermi non conforme alla norma.
Quello che per un forestiero appare molto evidente in italia, e in particolare nelle grandi città, -e Milano ne è il massimo esempio- è il pedantismo con cui ogni singola persona si adopera per apparire conforme. Non solo nel vestire, ma anche nel modo di comportarsi e nel modo di agire.
L'anticonformismo viene in italia dai più relegato solo ad ambiti rigorosamente non pubblici: la cena fra amici, la gita fuoriporta, il letto. Questo significa che è molto difficile che un italiano decida di vestirsi in modo differente dalla norma, a meno che non appartenga ad un gruppo di persone o di amici che si vestono tutte allo stesso modo, e volontariamente diversi dalla Norma. È per questo che a Milano difficilmente una persona qualunque decide senza l'influenza di un gruppo di prendere la bicicletta per andare al lavoro, ed è per questo che molti fra chi appartiene a gruppi che volontariamente si oppongono alla norma, organizzano un critical mass solo in parte perchè consapevoli dell'utilità della bicicletta, e soprattutto invece per il compiacimento di appartenere ad un gruppo.
Questo è naturalmente un risvolto positivo, e ben venga la critical mass. D'altra parte è però chiaro che finchè un'azione critica si fa una volta ogni tanto rimane appunto relegata alla “critica”. Come ogni critica che si autodichiara tale ha un valore rituale e di autoidentificazione nel gruppo dei “fuori norma”, che sotterra più o meno completamente l'obiettivo di cambiare qualcosa. L'unica critical mass che può sperare di cambiare qualcosa in una metropoli italiana è una critical mass che si svolge imprevedibilmente e spontaneamente ad orari del giorno sempre diversi, distribuita su diverse parti della città contemporaneamente e soprattutto tutti i giorni della settimana senza eccezione. è una critical mass che fa di tutto per non apparire una dimostrazione o un'attività fine a se stessa, ma invece inglobata nel quotidiano.

Un altro aspetto che impedisce un'evoluzione delle abitudini negli italiani è che gli involontari “arbitri del costume”, per esempio i personaggi pubblici, i personaggi mediatici, i politici, e in generale le persone che dimostrano un certo potere economico, sono spesso le prime che per lo più dimostrano costumi smodati e immorali. Un esempio ce l'abbiamo avuto proprio oggi.
Un certo signor Corona, una specie di paparazzo diventato famoso per aver guadagnato molti soldi grazie all'utilizzo di foto compromettenti, ha fatto la sua comparsa da “vitellone” nel mezzo della strada mentre io e mia zia ci eravamo fermati a chiacchierare con alcune persone. Credo fosse via Visconti. Improvvisamente una spider a velocità di molto superiore ai 50km/h inchioda sulla strada, e senza nessun direzionale, nè preavviso di alcun tipo, inbocca una traversa ad accesso vietato alla stessa velocità esagerata di prima. E una delle persone con cui stavamo parlando esclama: “vedete, quel furfante di Corona” e ci spiegano chi sia questo Corona. Questa persona a parole disprezzava questo personaggio e il suo comportamento -stradale e mediatico-, ma il messaggo implicito in quella affermazione era: “ Orca se ce l'avessi io i soldi che ha lui cosa non ne farei di boiate così!”.

L'esempio implicito e non voluto è sempre più efficace, perchè spontaneo, rispetto all'esempio che viene “insegnato” a scuola, in chiesa o in un altro luogo preposto all'educazione. Come possiamo immaginare che la prossima generazione si adegui senza traumi ad una vita libera dalla schiavitù dell'automobile, se nelle fiction televisive italiane tutti i personaggi maggiorenni possiedono o vogliono possedere un'automobile, e appena sono sedicenni devono ricevere un motorino? Perchè non mostrare personaggi televisivi che se devono spostarsi da un luogo ad un altro della città lo fanno in taxi? In queste due settimane trascorse prevalentemente sulle strade statali che collegano le città del nord italia ho incontrato centinaia, se non migliaia di ciclisti. E tutti, ad eccezione di alcuni extracomunitari che potrei contare sulle dita di una mano, erano persone che non utilizzavano un mezzo di trasporto per spostarsi, ma pedalavano su una cyclette all'aperto. Trascorrevano il loro tempo libero con gli amici. Rispondono a delle proprie esigenze sociali – rimanere in linea, coltivare un gruppo di amici, protestare insieme -, ma non contribuiscono a cambiare i costumi del consumatore italiano. Anzi la mia impressione è che il ciclista italiano medio è il consumista per eccellenza, perchè se non ha l'ultimo modello di ruota superleggera, e di caschetto supersicuro, e di pantaloncino supermorbido, se insomma non ha lasciato in un negozio sportivo qualche migliaio di euro, allora non ha il coraggio di farsi vedere dagli amici a pedalare per strada!
Se però il consumatore italiano si accorgesse che intorno a sè sulla strada si incontrano persone “normali” - vale a dire vestite bene, pettinate bene, senza anelli al naso e senza pretese da giovane rivoluzionario, che non vanno in bicicletta perchè sono dei perditempo, ma per adempiere ad uno spostamento personale necessario, allora si può sperare che qualcuno prima o poi si accorga che quella è una possibilità concreta, economica e dignitosa -oltre che salutista e socialmente felice- di spostarsi.

L'italiano medio non si ritiene importante come singolo, ma solo se parte di un gruppo. Se anche assume un comportamento pubblico “anormale” -sia esso di natura sociale, o estetica, o linguistica-, è solo se sa di avere il consenso del gruppo.
L'italiano medio non ha il coraggio di comportarsi in modo diverso dal gruppo. Si sentirebbe solo e isolato. E non importa se sia un teen-ager o un vecchio pensionato: l'italiano medio è fondamentalmente insicuro quando è preso da solo.

Siamo arrivati a piazza Duomo e ci siamo seduti ad un tavolino vicino al lato nord del Duomo, a prendere un po' di sole e bere un the.
Nel caso qualcuno non lo sapesse piazza Duomo è il posto peggiore su suolo italiano per qualità-prezzo. Un thè fatto probabilmente con the freddo scaduto preso dalla bottiglia di plastica e intiepidito con un po' di acqua calda del rubinetto è costato 4 euro.
Non mi stupisco più che Milano sia un luogo dove pullula la criminalità straniera.
Cosa fareste voi se foste uomini senza nulla da perdere e dall'estero capitaste in una città dove chi ne ha la possibilità approfitta dei più sprovveduti, dal padrone di casa che affitta una topaia buia per 500€ a uno studente, al locale che insulta il forestiero offrendogli dell'acqua sporca come bevanda ? Probabilmente vi dareste senza troppi rimorsi di coscienza alla microcriminalità, per sentirvi anche voi parte di quel mondo.
In realtà la microcriminalità straniera nelle nostre metropoli non è un evento disdicevole. è integrazione culturale!

Vi state forse rendendo conto che la città di Milano mi provoca spesso degli eccessi di rabbia.

Forse è il caso di raccontarvi allora cosa mi è successo all'alba del 14 dicembre 2004 alla stazione centrale di Milano.

Ero appena arrivato quella sera sul treno proveniente da Como, e speravo di prendere ancora l'ultimo treno della giornata per Genova. Invece sfortunatamente era partito proprio mentre arrivava in stazione il treno su cui mi trovavo. Così ho pensato di cercare il deposito bagagli, dove poter deporre al sicuro i bagagli, e prepararmi quindi a trascorrere la notte nei dintorni in attesa del primo treno del mattino per Genova. Non avevo alcuna possibilità economica di trascorrere la notte in un albergo. L'ostello non era raggiungibile se non in taxi, e il taxi sarebbe costato da solo già quanto una notte in albergo. Il deposito bagagli era già chiuso, e non esisteva nessuna cassetta di sicurezza per i bagagli: eliminate anni orsono come norma di prevenzione di azioni terroristiche. La sala d'attesa era chiusa ed avrebbe riaperto solo alle quattro di mattina. Allora portandomi dietro il trolley tutto il tempo ho passato le successive 4-5 ore ad aspettare che aprisse la sala d'attesa. Per evitare di avere problemi con i ragazzi che gironzolavano sospetti dentro e attorno alla stazione, e in mancanza di agenti di polizia che sorvegliassero alcunchè, ho pensato di fare amicizia con alcuni di loro, dei romeni, e ho ingannato il tempo assieme a loro fino alle 4.
Quando ha aperto la sala d'attesa ho visto che c'era un portiere che controllava chi entrava e chi usciva, e ho sentito che ogni tanto una voce registrata ricordava che la stazione è sorvegliata da videocamere nascoste. Così quando erano finalmente le 6 sono andato un attimo a vedere al binario se il mio treno fosse già arrivato, e ho lasciato il trolley qualche secondo incustodito. Era una valigia verde scuro piena di vestiti, effetti personali, documenti, libri e cd presi in prestito, un set completo di strumenti per intaglio, e molte altre cose per me molto preziose. Quando sono tornato nella sala d'attesa la valigia non c'era più. Il guardiano all'entrata non aveva visto niente e leggeva il giornale. Allora sono andato alla polizia ferroviaria, che era proprio sul binario, e ho detto che mi era scomparsa una valigia così e cosà. E gli agenti sono partiti a perlustrare con calma ognuno una uscita della stazione. Dopo circa un minuto sono tornati e hanno detto che non hanno trovato niente. Allora mi hanno detto di fare la denuncia, ed io in lacrime per la rabbia ho fatto questa denuncia, mentre mi immaginavo il ladro che intanto si allontanava sempre di più e diventava sempre meno raggiungibile.
Dopo la denuncia ho chiesto all'agente di fronte a me, che cosa sarebbe successo adesso, cosa avrebbero intrapreso per aiutarmi. “Nulla” ha risposto con sufficienza. “Di questi furti qui ne accadono normalmente tutti i giorni due o tre, sono delle bande di sudamericani che rubano le valigie, guardano dentro quello che possono rivendere, ed il resto lo buttano in un qualunque cassonetto della spazzatura. Non c'è modo di rintracciarle. “ . “Ma come” rispondo io, “Non avete le telecamere che filmano quello che accade nella stazione? Non potete facilmente rintracciare queste persone?” “No, non ci sono telecamere attive in stazione”.
In quel momento mi sono sentito morire dentro, e ho capito che questa città è un posto da cui le persone oneste dovrebbero cercare di stare alla larga.

Non ho mai provato sentimenti di rabbia per le persone che mi hanno portato via la valigia, perchè quello è il ruolo a cui sono stati adibiti da quella società "civile", ed in definitiva hanno fatto nella loro colpevolezza un ottimo lavoro, ma invece tutta la mia rabbia e il mio intimo odio si è rivolto alla manchevolezza del personale ferroviario. Nelle metropoli civili infatti la sorveglianza delle ferrovie, come della metropolitana e di tutti i luoghi predisposti al pericolo di furti a passeggeri, è affidata alle telecamere e a personale che ha il compito di controllare attivamente l'area, ed essendo questa gente pagata per farlo, lo fa anche bene.
Non voglio qui affermare che la polizia ferroviaria di Milano sia corrotta o intimidita dalle bande, ma ho buoni motivi per supporlo.
E se anche non lo è, quegli agenti e quel guardiano della sala d'attesa sono comunque consci di non fare bene il proprio dovere, ma evidentemente questo non intacca la loro coscienza, poichè vivono in una cultura dove chi vive e lavora con coerenza è un santo, e “io non sono nè un fesso nè un santo!”: così ragionano tutti, o quasi. Perchè avrebbe dovuto mobilitarsi troppo uno di quegli agenti per recuperare il mio bagaglio, magari rischiando di provocare le invidie dei suoi colleghi, magari rischiando di scontrarsi con una banda meglio organizzata della polizia stessa, e perchè avrebbe dovuto il guardiano preoccuparsi di guardare le persone che entrano e che escono, se tanto quello stipendio lui lo percepisce comunque?


Sull'onda della rabbia che non avevo ancora del tutto sfogato mi sono scagliato come una belva contro una signora maleducata che pretendeva di farsi fare una foto seduta sul risciò parcheggiato là a fianco senza neanche porsi il problema di dover chiedere a qualcuno il permesso.
Certo non ce l'ho scritto in fronte che sono il proprietario del risciò, ma credo che chi ha la sfrontatezza di sedersi su un veicolo di proprietà altrui ha sicuramente anche l'espansività di chiedere alle persone attorno se qualcuno è il proprietario o ha visto il proprietario.
Spero che sia il mio ultimo comportamento spiacevole qui a Milano.

Poi siamo entrati a visitare il Duomo, un'esperienza speciale. Era un ambiente enorme e buio, e la luce entrava da grandi vetrate coloratissime. Le navate interne erano divise fra lo spazio interno dove le persone pregavano e lo spazio anteriore separato da un cancello, riservato ai visitatori profani. Per entrare era necessario fare la coda, ma il flusso di persone era abbastanza scorrevole. Probabilmente la maggior parte dei visitatori dava un'occhiata fugace all'interno e usciva subito dopo aver constatato di persona che è troppo buio per fare foto senza flash. Che poi se è così buio là dentro ci sarà pure un motivo!

Una volta tornati sul risciò mia zia ha colto l'occasione per illustrarmi come il grande suolo prospiciente la facciata del Duomo sia suddiviso idealmente in diversi settori, ognuno dei quali è occupato da una diversa etnia di immigrati. Si incontrano tutti qui di domenica in un clima assai festoso. Anche oggi nella piazza è presente il ruffiano che fa le foto con i piccioni ai turisti. Riusciamo a farci fare da lui con la camera di mia zia qualche foto di cortesia con il Duomo come sfondo.

in risciò a piazza Duomo a Milano


Poi prima di riprendere la strada di casa abbiamo fatto un po' di giri fra le aree pedonali, siamo finiti in una piazzetta dove la gente faceva foto scurrili accanto ad un voluminoso nudo femminile di Botero, e in piazza Manzoni, dove ho scherzato con alcuni ragazzi stranieri che erano seduti presso la statua dell'illustre Alessandro Manzoni: “let you see the statue of the very ball-breaker of milions of poor italian students..”. L'ho solo detto per far arrabbiare mia zia, che insegna italiano. Infatti si è risentita! Qualcuno in quei dintorni, un vecchio burlone, mi ha fermato per chiedermi se poteva sedersi dietro con mia zia, io ho detto che è meglio di no, e allora ha chiesto se non potevo lasciare mia zia là con lui e portarmi via un altro burlone della sua combriccola, ma mia zia non ha voluto.

Poi ci siamo ancora un po' divertiti a sfiorare i passanti con il ventaglio thailandese, e quando ormai erano le 6 di sera ci siamo rimessi in marcia verso casa.
Abbiamo fatto ancora una piccola pausa all'incrocio fra viale Buenos Aires e via Vitruvio, perchè là c'è la Deutsche Bank e ho potuto prelevare il denaro eventualmente necessario per raggiungere Genova. Dato il brutto ricordo che ho della stazione centrale, a cui via Vitruvio conduce direttamente, ho cercato istintivamente di allontanarmene più in fretta che ho potuto.
Mentre ritornavamo sulla stessa strada dell'andata, la zia stimava quanto tempo avevamo impiegato per andare e per tornare, e ha concluso che mediamente andando da casa fino al centro prendendo il treno e poi la metropolitana si guadagnano 15 minuti rispetto al tempo che abbiamo impiegato con il risciò. E si spendono circa 3 € di biglietti, 6€ se si è in due e cosi via. E ci si annoia da matti durante tutto il tragitto, si deve camminare, e si rischia di essere derubati, e non si possono trasportare borse eccessivamente pesanti.

Di ritorno a Cormano avrei ancora voluto andare a mangiare all'osteria dell'orologio, vicino al passaggio a livello, e il proprietario al nostro passaggio è uscito fuori a salutarci. Ma la zia aveva già qualcosa di buono e sostanzioso in programma per la cena. E ne avevo anche molto bisogno questa sera, perchè domani avrei fatto visita all'ospedale Niguarda e per l'occasione fatto una donazione di sangue. Sono andato a dormire piuttosto presto, satollo e contento di essere qui.

Cormano-Milano-Cormano: 20 km


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